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Giuseppe Lesce: «Continuiamo a rinnovarci»

Laureato in Ingegneria Elettronica, Giuseppe Lesce dal 1988 è in forza presso Sacmi Imola dove ha avuto ruoli direttivi nella Divisione Closures & Containers e nella Divisione Customer Service, mentre dal 1° luglio 2019 occupa la funzione di Direttore Public Affairs, in staff al Direttore Generale di Gruppo con la responsabilità di Marchi, di Brevetti e della Finanza Agevolata. Lesce è inoltre membro del Consiglio di amministrazione di tre società del Gruppo. Dal 2010 al 2016 è stato presidente di Ucima, l’associazione dei Costruttori delle Macchine Automatiche per il confezionamento e l’imballaggio, facente capo a Confindustria. Dal 2019 è presidente di Federmacchine.

di Edoardo Oldrati e Raffaella Quadri

Oggi in che condizioni è il comparto italiano delle macchine industriali?

Come l’intero sistema, abbiamo vissuto un 2020 difficile: tutti i settori industriali stanno soffrendo anche a causa della sospensione, molto prolungata nel tempo, della domanda e delle attività. Chi si era illuso che con il terzo trimestre dell’anno avremmo intrapreso un buon percorso evidentemente è rimasto deluso.

Il comparto rappresentato da Federmacchine nel 2019 aveva registrato una leggera contrazione di tutti gli indicatori, che però eravamo rimasti su livelli piuttosto alti: il 2018 era stato un anno record, sia per quanto riguarda il fatturato, andato oltre i 49 miliardi di euro – sono stati circa 48 miliardi l’anno successivo –, sia per l’export che era al 67% pari a 32 miliardi di euro e anche il consumo interno era andato molto bene. Il 2020 ha stravolto tutto. A fine 2020 abbiamo stimato e temiamo che ci possa essere una contrazione sia di fatturato che di consumo interno nell’ordine del 30% rispetto all’anno precedente; numeri davvero pesanti.

C’è anche da aggiungere che non tutti i comparti sono stati penalizzati allo stesso modo, per esempio il mondo del packaging ha sicuramente sofferto meno, sostenuto dalle catene alimentari e farmaceutiche che non hanno rallentato. Vedremo come proseguirà l’anno, per quanto le notizie attuali non siano particolarmente confortanti.

Per il settore delle macchine industriali italiane l’export è una dimensione fondamentale. Oggi le difficoltà in questo ambito sono tante per le aziende: quali sono le misure più urgenti per rilanciare la competizione delle nostre aziende sui mercati globali?

Esportiamo i due terzi di ciò che produciamo ed è una voce particolarmente rilevante nella bilancia dei pagamenti italiana, anzi è la voce più positiva in termini assoluti. Però abbiamo sofferto prima la fermata delle attività e poi, nella ripresa, i problemi legati agli spostamenti e a ciò che questo comporta a livello di avviamento delle linee vendute e di servizi post-vendita. Certamente la pandemia ha fatto accelerare moltissimo dal punto di vista dell’implementazione di nuove tecnologie digitali, tuttavia non dimentichiamo che è difficile digitalizzare la vendita di un bene strumentale, così come di alcuni beni di consumo o durevoli, come può essere un’automobile. Quando si parla di investimenti di milioni o di decine di milioni di euro per linee complesse, il confronto tra l’azienda che vende e l’acquirente è molto importante. Non tutto si può fare in chat o via web. Quindi il blocco e le limitazioni alla mobilità condizionano molto il nostro operato. Lo stesso si dica per interventi di assistenza tecnica o di avviamento di una macchina o di una linea che comportino solo alcuni giorni di lavoro, che diventano più di un mese a causa delle disposizioni per l’obbligo alla quarantena e che rischiano di rendere tutto davvero poco sostenibile, non soltanto dal punto di vista prettamente economico ma anche in quanto si paralizza l’attività aziendale a causa della mancanza di personale.

Nell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (Desi) della Commissione Europea per il 2019, l’Italia si colloca al 26esimo posto fra i 28 Stati membri dell’UE nella categoria “Capitale umano”. Sono le competenze il freno allo sviluppo digital della nostra industria? Come è possibile risolvere questa criticità?

Ritengo che l’Italia in questo ambito debba fare dei passi avanti. Nel passaggio di competenze al MiSE, tra i ministri Calenda e Di Maio, ci fu un momento in cui i contributi e le facilitazioni di Industria 4.0 furono bloccati. E quando ripartirono – per quanto, per certi punti di vista, in maniera persino più vantaggiosa di quanto non fosse stato fatto precedentemente – lo fecero evidentemente con meno enfasi e chiarezza, tanto che molte aziende ancora indecise vi rinunciarono. Uno stop-and-go dunque che, a mio avviso, è stato un gravissimo errore; situazione a cui poi si è aggiunto l’arrivo della pandemia che ha fatto il resto. Sta di fatto che il passaggio dall’iperammortamento al credito d’imposta non è stato compreso completamente e ritengo che andrebbe opportunamente pubblicizzato.

A tutto questo si collega il tema della formazione che dovrebbe essere oggetto di contributi e aiuti. In Italia c’è da molto fare a livello culturale, perché i giovani non sono stimolati a scegliere scuole tecniche. È il sistema che non funziona; se si confronta la percentuale di giovani che scelgono istituti tecnici e facoltà scientifiche in Italia rispetto a quanto succede in Germania, ci rendiamo conto del perché a noi manchi il personale. Per di più in un contesto in cui c’è un 30% e più di disoccupazione giovanile; significa che c’è qualcosa che non va nel sistema.

C’è quindi una difficoltà nel trovare personale con le nuove competenze oggi indispensabili?

Assolutamente. Una tipologia di istituto che sta funzionando molto bene è quella degli istituti tecnici superiori – gli ITS – che nascono quasi sempre su iniziativa privata, dalla collaborazione di aziende e associazioni di categoria che sostengono queste iniziative. Sono uno strumento fantastico, i ragazzi che si diplomano in questi istituti – in cui, tra l’altro, vi è anche una grande attenzione all’alternanza scuola-lavoro – trovano impiego rapidamente e hanno molte prospettive; anzi in tanti casi c’è persino più richiesta che offerta. Del resto, proviamo a immaginare in quale tipologia di lavoro oggi non sia importante la formazione, anche tecnica, sulle nuove tecnologie. È trasversale in tutti i campi.

Il Piano Transizione 4.0 dovrà agire in uno scenario molto diverso da quello in cui è stato previsto: servono modifiche o correzioni per renderlo efficace?

La transizione digitale secondo quello che era il piano Industria 4.0, ora diventato piano di Transizione 4.0, è iniziata ormai 5 anni fa e non è ancora conclusa, anche perché il divario tra le imprese più innovative e con una forte vocazione all’export e le imprese meno strutturate è molto ampio; le seconde fanno fatica a tenere il passo e spesso sono rimaste escluse dalla trasformazione digitale. È un problema enorme a cui bisogna porre rimedio perché, come l’emergenza sanitaria ha reso ancora più evidente, queste tecnologie permettono alle nostre imprese di presidiare meglio i mercati lontani e il rapporto con i clienti. Basti pensare al grande tema della manutenzione predittiva, dell’assistenza da remoto, delle piattaforme capaci di dialogare con le macchine interconnesse; e questo vale anche all’interno del proprio stabilimento produttivo. Ci sono due aspetti, quindi, da considerare: migliorare la propria produzione e migliorare il proprio prodotto. Per questi motivi il piano Transizione 4.0 non può durare meno di 5 anni.

Purtroppo però si nota, a volte, una distanza tra chi governa – e prende decisioni – e il mondo dell’economia reale, delle industrie e delle imprese. Da parte delle istituzioni mi aspetterei un intervento per un aumento dei massimali su cui applicare il credito di imposta, la rimodulazione delle aliquote in generale e tutto ciò che aiuterebbe le aziende ad andare nella direzione dello sviluppo delle tecnologie 4.0. La trasformazione di un’industria è qualcosa che avviene gradualmente, non è un on-off. Ci sono aziende che sono già in fase molto avanzata di digitalizzazione e ce ne sono altre che, invece, hanno bisogno di svecchiare l’intero parco macchine presente nelle proprie officine o negli impianti di produzione. È necessario garantire piani strutturati per accompagnare le aziende nella loro crescita fino a rinnovare completamente i processi.

In che modo Federmacchine può aiutare i costruttori di macchine italiane a ripartire oggi? Quali sono le priorità del suo mandato?

Federmacchine rappresenta un sistema manifatturiero formato da molte aziende di medie dimensioni in cui ci sono alcune tematiche da affrontare: il grande tema della trasformazione digitale che va supportato, e sicuramente – come si diceva prima – quello della manodopera specializzata, perché la prima non si realizza senza la seconda; poi c’è il tema dell’internazionalizzazione delle imprese. Se si entrasse in merito alle percentuali di export dall’azienda grande a quella piccola si noterebbe che ci sono differenze abissali.

Tutto questo deve fare parte di un sistema, non si tratta di fare un intervento, di dare un piccolo aiuto o un contributo, ma di fare qualcosa di strutturale, di intervenire a livello di politica industriale. Credo che in questo contesto la Federazione abbia un ruolo importante da svolgere.

Forse l’elemento chiave per capire questi comparti, il dato che bisogna guardare, è proprio l’internazionalizzazione?

Sì, la dimensione aziendale è una criticità: il “piccolo e bello” in parte è meno vero che in passato e in parte non lo è più per niente. Tante volte la nostra creatività si è manifestata nel piccolo, nella genialità del singolo, nessuno lo nega. Detto questo però fare massa critica in certe situazioni, soprattutto per la penetrazione dei mercati lontani – non solo a livello geografico ma anche culturale –, diventa indispensabile.

Occorre superare la diffidenza che spesso c’è verso le fusioni, le collaborazioni, le partecipazioni. Abbiamo a disposizione diversi strumenti, come la rete di impresa su progetti e su obiettivi specifici, ma il problema è che per mantenere il “piccolo e bello” in taluni casi si rischia veramente di non sopravvivere.

E per quanto riguarda gli obiettivi del suo mandato?

Frequento Federmacchine dal 2010, quindi prima di me ho visto alternarsi altri presidenti: ritengo che abbiano fatto un buon lavoro e che il solco da loro tracciato vada proseguito. Credo però che si debba prestare anche molta attenzione a esigenze che sono cambiate, perché è cambiato il contesto in cui viviamo. All’interno del sistema che fa parte di Federmacchine, ci sono alcune realtà in sofferenza. Sono convinto quindi – e questo l’ho detto anche nella mia bozza di programma prima di essere eletto e continuo a ripeterlo – che le realtà più robuste e strutturate debbano aiutare maggiormente quelle che sono in difficoltà. Ci sono Associazioni che hanno continuato a lavorare nel periodo del lockdown, alcune addirittura hanno lavorato anche nei fine-settimana, e ce ne sono invece altre, meno strutturate, che, invece, non hanno potuto dare molto supporto.

Come deve cambiare Federmacchine per essere più efficace nella sua azione?

Penso che il mondo associativo abbia bisogno di rinnovarsi e di migliorare. Con la riforma Pesenti del sistema confindustriale qualcosa si è attuato, ma ora c’è bisogno di fare un passo ulteriore. Io stesso sono stato fautore della fusione tra due associazioni, quella delle macchine per il packaging (Ucima) e l’associazione delle macchine per la ceramica (Acimac), che hanno mantenuto organi di governo separati ma si sono dotate di strutture comuni. Un sodalizio a cui quest’anno si è aggiunta la terza associazione, quella delle macchine per la plastica (Amaplast), e che sta funzionando molto bene, tanto che ci ha permesso di aumentare il portafoglio servizi che offriamo alle aziende – compreso un Centro Studi – grazie ai quali siamo più competitivi.